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SAN FILIPPO NERI
“Tieni la tua mano sulla mia testa, Signore. Altrimenti Pippo te la fa.” Così pregava Filippo Neri, il grande santo della carità e della gioia. Suo è il motto “scrupoli e malinconia fuori da casa mia.”
Simpatico e allegro comunicatore d’eccezione, dolce e persuasivo educatore, Filippo Neri da bambino era soprannominato Pippo Buono per la sua giovialità e la sua mitezza.
Nato a Firenze nel 1515 trascorse la sua vita adulta a Roma, dando un esempio mirabile di carità cristiana. Frequentava i quartieri più poveri e portava ovunque la sua amabilità. Raccoglieva attorno a sé, curava, educava e istruiva, facendoli anche divertire, ragazzi poveri avvezzi alla vita di strada, a cui nei momenti di maggiore turbolenza diceva in romanesco: “State boni se potete.” Un giorno un signore, infastidito dalle sue richieste di carità gli diede uno schiaffo. Lui di risposta: “Questo è per me e ve ne ringrazio. Ora datemi qualcosa per i miei ragazzi.” Sosteneva che era possibile restaurare le Istituzioni umane con la santità e non al contrario restaurare la santità con le Istituzioni.
Innamorato dell’amore di Dio immolato sulla Croce per noi, esortava: “Non cercate mai di fuggire la croce che Dio vi manda, perché di sicuro ne troverete un’altra maggiore.”
Così forte era la sua immedesimazione nei misteri divini, che spesso durante la celebrazione della santa Messa si sollevava da terra.
Quando a ottant’anni si ammalò, dispiaciuto, così si rivolgeva al Crocifisso: “Tu, Gesù, sulla Croce, e io in un letto pulito con tanta gente attorno che mi cura.”
Impersonò tanto la carità di Cristo da essere molto amato, ammirato e venerato dalla popolazione romana e da vari Papi.
Rifiutò il cardinalato per restare accanto agli ultimi come uno di loro.
Dopo morto i medici constatarono che il suo cuore aveva un volume molto più grande del normale, tanto che due costole si erano curvate e rotte per dargli spazio.
La sua memoria ricorre il 26 maggio. |
SAN GIOVANNI BOSCO
Giovanni Bosco, fondatore della congregazione dei Salesiani, fu un grande educatore. Nacque nel 1815 in una frazione di Castelnuovo d'Asti da una famiglia di contadini. Rimasto orfano di padre all'età di soli due anni, dovette presto scontrarsi con il duro carattere del fratellastro Antonio, figlio delle prime nozze del padre, che voleva fare di Giovanni un agricoltore, contrariamente alla sua vocazione allo studio e al sacerdozio. Fu mamma Margherita, una santa donna, che gli impartì una prima educazione religiosa e lo incoraggiò negli studi per il sacerdozio. Raccomandandogli di restare povero, così gli diceva: “Se tu volessi farti prete per diventare ricco, io non verrò mai neppure a farti visita”. La sua vocazione era stata accesa da un sogno profetico, fatto all'età di nove anni. Lui stesso lo racconta nelle “Memorie”.
Mi pareva di essere vicino a casa, in un cortile molto vasto, dove si divertiva una gran quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie mi slanciai in mezzo a loro. Cercai di farli tacere usando pugni e parole. In quel momento apparve un uomo maestoso, vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La sua faccia era così luminosa che non riuscivo a fissarla. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di mettermi a capo di quei ragazzi. Aggiunse: «Dovrai farteli amici non con le percosse, ma con la mansuetudine e la carità. Su, parla, spiegagli che il peccato è una cosa cattiva e che l'amicizia con il Signore è un bene prezioso». Confuso e spaventato risposi che io ero un ragazzo povero e ignorante, che non ero capace di parlare di religione a quei monelli.
In quel momento i ragazzi cessarono le risse, gli schiamazzi e le bestemmie e si raccolsero tutti intorno a colui che parlava. Quasi senza sapere cosa facessi gli domandai: «Chi siete voi, che mi comandate cose impossibili?» «Proprio perché queste cose ti sembrano impossibili – rispose – dovrai renderle possibili con l'obbedienza e acquistando la scienza». «Come potrò acquistare la scienza?». «Io ti darò la maestra. Sotto la sua guida si diventa sapienti, ma senza di lei anche chi è sapiente diventa un povero ignorante». «Ma chi siete voi?». «Io sono il figlio di colei che tua madre ti insegnò a salutare tre volte al giorno». «La mamma mi dice sempre di non stare con quelli che non conosco, senza il suo permesso. Perciò ditemi il vostro nome». «Il mio nome domandalo a mia madre».
In quel momento ho visto vicino a lui una donna maestosa, vestita di un manto che risplendeva da tutte le parti, come se in ogni punto ci fosse una stella luminosissima. Vedendomi sempre più confuso, mi fece cenno di andarle vicino, mi prese con bontà per mano e mi disse: «Guarda». Guardai e mi accorsi che quei ragazzi erano tutti scomparsi. Al loro posto c'era una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi e parecchi altri animali. La donna maestosa mi disse: «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Cresci umile, forte e robusto e ciò che adesso vedrai succedere a questi animali, tu lo dovrai fare per i miei figli». Guardai ancora ed ecco che al posto di animali feroci comparvero altrettanti agnelli mansueti che saltellavano, correvano, belavano, facevano festa attorno a quell'uomo e a quella signora. A quel punto nel sogno mi misi a piangere. Dissi a quella signora che non capivo tutte quelle cose. Allora mi pose una mano sul capo e mi disse: «A suo tempo, tutto comprenderai»
Dopo la prima comunione, l'ostilità del fratellastro lo costrinse a lasciare la casa. Don Calosso, cappellano di Murialdo, lo prese con sé e gli insegnò il latino. Presto, però, morì lasciando Giovanni in una situazione difficile. Tuttavia, superate le difficoltà, egli riuscì a coronare il suo sogno e a diventare sacerdote. Ebbe a suo fianco Giuseppe Cafasso, poi proclamato santo.
Il suo primo allievo fu Giuseppe Garelli, un ragazzo di strada allontanato dal sagrestano che non lo voleva in chiesa. Attorno a Giuseppe si aggiunsero tanti altri ragazzi raccolti per strada, sfamati e istruiti da don Bosco, che li seguiva personalmente assicurando loro cibo, divertimento, assistenza religiosa e avviamento al lavoro. Don Bosco, infatti, capì che proprio in quell'epoca in cui nasceva il mondo industriale, la gioventù doveva essere preparata alla vita con una preparazione umana, religiosa e anche professionale. Fu lui a ideare le prime scuole professionali, dalle quali uscirono giovani preparati, onesti e capaci.
Fu un ottimo pedagogista. Istillò nei suoi giovani il senso del dovere, l'amore per tutto ciò che è bello e buono, la verità, la giustizia, la purezza, la carità e l'allegria. Applicò il sistema preventivo, ritenendo che bisognava prevenire gli errori e non punirli. Questa novità, in tempi in cui il sistema educativo era ancora repressivo, gli costò molte ostilità.
Don Bosco, inoltre, garantì ai ragazzi il primo contratto di apprendistato. Le sue iniziative diedero sospetti a politici e erano osteggiate dagli industriali che vedevano lesi i loro interessi.
Don Bosco fu minacciato, perseguitato e più volte attentarono alla sua vita. Lo salvò spesso l'intervento misterioso di un cane lupo, che chiamarono “il grigio” e che nei momenti più cruciali appariva per poi sparire. Mamma Margherita gli fu accanto sempre e fu la mamma di tutti i suoi ragazzi, sin dai tempi in cui don Bosco approntò il primo suo oratorio sotto la tettoia Pinardi.
Egli pose la sua opera di educatore cristiano sotto la protezione di Francesco di Sales, da cui prese nome la sua Congregazione dei Salesiani. Fra i suoi alunni è San Domenico Savio, il più giovane dei santi salesiani.
Alle opere salesiane maschili si affiancarono quelle femminili di Maria Ausialiatrice, dirette dalla Santa Maria Mazzarello.
La missione di Giovanni Bosco, che prese il via dal sogno fatto all'età di nove anni fu costellata di sogni, profezie e doni straordinari. Numerosi i prodigi da lui compiuti. Fu amico e consigliere di poveri e ricchi, ministri, re, vescovi e papi. Fece costruire la Basilica di Maria Ausiliatrice a Torino, a Roma quella del Sacro Cuore e in Spagna quella del Tibidabo. Don Bosco morì a Torino il 31 gennaio del 1888. Fu proclamato santo il primo aprile del 1934.
Le case salesiane e gli oratori si estesero in tutto il mondo, dove tutt'ora danno copiosi frutti sulla scia della pedagogia di don Bosco.
La sua memoria ricorre il 31 gennaio. |
SAN BONAVENTURA
San Bonaventura, vescovo e dottore della Chiesa, nacque a Bagnoreggio in provincia di Viterbo nel 1221. Giovanissimo, mostrò una grande prontezza d'ingegno. Dopo aver studiato a Parigi, entrò nell'ordine francescano e fu il frate più colto di tutto l'Ordine, ma anche il più umile.
Fu eletto ministro generale dell'ordine e lo resse con grande sapienza. Fu nominato poi vescovo di Albano. Pur essendo ricco di dottrina, fu sempre pronto all'obbedienza. Gli fu affidato il compito di scrivere la vita ufficiale di San Francesco d'Assisi, la così chiamata Legenda Maior, illustrata poi da Giotto sulle pareti della chiesa superiore di San Francesco in Assisi. Bonaventura non conobbe Francesco, ma riuscì a portarne avanti lo spirito nei nuovi tempi storici. Infatti, la nuova generazione aveva avvertito il bisogno di penetrare non solo negli ambienti più umili, come del resto fu all'inizio, ma anche in quelli intellettuali. Questo fatto costituiva un pericolo, in quanto si temeva che in quegli ambienti i francescani perdessero la loro caratteristica semplicità e umiltà. Bonaventura seppe spiegare come tutti possono mantenersi umili in qualsiasi stato di vita e di cultura si trovino e che l'umiltà sostiene più alto e più profondo l'amore. Un giorno Bonaventura andò a visitare a Monteripido, presso Perugia, uno dei più semplici compagni di Francesco d'Assisi, frate Egidio, ex contadino, che si mostrò molto preoccupato del nuovo indirizzo culturale dell'Ordine. Quando frate Egidio vide il maestro Bonaventura, gli disse: “Maestro, a voi Dio ha fatto grandi doni di intelligenza ma noi di ingegno grosso e senza studi, che non abbiamo alcuna scienza, come faremo a salvarci?” Fra Bonaventura rispose: “Se Dio dà all'uomo soltanto la grazia di poterlo amare, questo basta.” Frate Egidio attendeva proprio questa risposta. Tuttavia continuò chiedendo: “Può dunque un ignorante amare Dio come un dotto?” E Bonaventura: “Una vecchiarella può amarlo anche più di un maestro di teologia”.
L'amore, nell'espressione della massima carità, fu la base della dottrina di Bonaventura. Nel libro che egli scrisse alla Verna “Itinerario della mente in Dio” sosteneva che l'intelligenza dovesse essere come le ali del Serafino che era apparso a San Francesco, proprio alla Verna, ali risplendenti di fuoco. A nulla, infatti, vale l'intelligenza se è priva del fuoco della carità. Una mente incendiata d'amore sale sempre più verso l'eterna verità che è Dio, amore purissimo. E chi tanto si immette in Dio e si lascia accendere di desiderio di Dio riceve la mistica sapienza dallo Spirito Santo che Cristo ha portato in terra. Bonaventura a questo proposito ci spiega “Se poi vuoi sapere come avvenga tutto ciò, interroga la grazia non la scienza, il desiderio non l'intelletto, il sospiro della preghiera non la brama del leggere, lo sposo non il maestro, Dio non l'uomo, la caligine non la chiarezza, non la luce ma il fuoco che infiamma tutto l'essere e lo inabissa in Dio con la sua soavissima unzione e con gli affetti più ardenti”.
Morì a Lione nel 1274.
Molte le sue opere di carattere teologico e filosofico. La sua memoria ricorre il 25 luglio. |
SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE
San Bernardo di Chiaravalle, abate e dottore della chiesa, nasce in Francia nel 1080 da una nobile famiglia. A sedici anni avverte un forte richiamo spirituale e a 22 anni lascia il castello per entrare monaco nell'ordine benedettino a Citeaux, dove la Regola è più severa. Lo seguono molti amici del ducato di Borgogna, conquistati dalla sua predicazione suadente e capacità di attrarre a Dio. Il monastero si popolerà a tal punto che si renderà necessaria la fondazione di una nuova abbazia che Bernardo fonderà a Chiaravalle. All'interno del monastero il tempo sarà scandito dal lavoro, dalla contemplazione e dalla preghiera. Mai in realtà i monaci interrompono la preghiera come relazione intima con Dio. Infatti in loro la preghiera interiore occupa la mente e il cuore in qualsiasi occupazione i monaci si trovino. La comunità diretta dall'abate Bernardo è comunità di preghiera con lo sguardo fisso a Gesù e a Maria.
Egli stesso afferma: ""Quando discuti o parli nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù” (Sermones in Cantica Canticorum XV).
E di Maria scrive: "Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l'aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l'esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare...” (Hom. II super «Missus est»).
Le vocazioni aumentano e non solo fra i nobili ma anche fra persone semplici e povere che hanno tanto amore di Dio nel cuore. Saranno i cosiddetti monaci conversi, che si dedicheranno a diversi lavori manuali e principalmente all'agricoltura e all'allevamento del bestiame apportando diverse innovazioni. Al loro lavoro l'abate Bernardo appena può si affianca, sostenendo che Dio si trova e può ammirarsi anche nel libro della Natura oltre che in quello della Scrittura.
L'abbazia di Chiaravalle risplende della luce della carità riflettendo nella vita stessa dei monaci l'amore di Dio Padre, di Dio Figlio e dello Spirito Santo, eterno amore del Padre e del Figlio.
Seguiranno Bernardo anche tutti i suoi fratelli e il padre rimasto vedovo. L'unica sorella entrerà in un monastero femminile.
Bernardo fonda monasteri in Francia, in Inghilterra e in altre regioni d'Europa. A lui si rivolgono le autorità politiche del tempo per risolvere diversi contrasti. Grande asceta, fine educatore e straordinario trascinatore di anime, l'abate Bernardo conserva l'umiltà accanto al coraggio per difendere la causa di Cristo nel cuore di ogni uomo fra i suoi monaci, in tutti coloro che forma alla vita cristiana e nel tessuto della Chiesa intera, scongiurandone lo scisma al tempo di Papa Innocenzo II.
Raffinato scrittore, fervente credente e innamorato di Maria, ha saputo cogliere nella Madonna gli aspetti più reconditi e santi della sua purissima natura femminile unica nella storia umana. Il suo parlare di Maria diventa un parlare a Maria, così partecipe e commovente da toccare profondamente il cuore del lettore e avvicinarlo teneramente al suo Cuore immacolato.
Morirà nel 1153 nel suo monastero di Chiaravalle lasciando nelle sue opere un impareggiabile tesoro letterario e di spiritualità cristiana che trasmette fiducia e dolcezza, dai trattati di dottrina e di contemplazione ai suoi innumerevoli scritti poetici rivolti alla Madonna.
Riportiamo di seguito un brano tratto dalle sue omelie sulla Madonna che mostra quanta intensità di partecipazione, d'amore e di riconoscenza verso la nostra Mamma celeste vi fosse nel cuore di Bernardo di Chiaravalle. "Hai udito, Vergine, che concepirai e partorirai un figlio; hai udito che questo avverrà non per opera di un uomo, ma per opera dello Spirito santo. L'angelo aspetta la risposta; deve fare ritorno a Dio che l'ha inviato. Aspettiamo, o Signora, una parola di compassione anche noi, noi oppressi miseramente da una sentenza di dannazione. Ecco che ti viene offerto il prezzo della nostra salvezza: se tu acconsenti, saremo subito liberati. Noi tutti fummo creati nel Verbo eterno di Dio, ma ora siamo soggetti alla morte: per la tua breve risposta dobbiamo essere rinnovati e richiamati in vita. Te ne supplica in pianto, Vergine pia, Adamo esule dal paradiso con la sua misera discendenza; te ne supplicano Abramo e David; te ne supplicano insistentemente i santi patriarchi che sono i tuoi antenati, i quali abitano anch'essi nella regione tenebrosa della morte. Tutto il mondo è in attesa, prostrato alle tue ginocchia: dalla tua bocca dipende la consolazione dei miseri, la redenzione dei prigionieri, la liberazione dei condannati, la salvezza di tutti i figli di Adamo, di tutto il genere umano. O Vergine, da' presto la risposta. Rispondi sollecitamente all'angelo, anzi, attraverso l'angelo, al Signore. Rispondi la tua parola e accogli la Parola divina, emetti la parola che passa e ricevi la Parola eterna. Perché tardi? perché temi? Credi all'opera del Signore, da' il tuo assenso ad essa, accoglila. Nella tua umiltà prendi audacia, nella tua verecondia prendi coraggio. In nessun modo devi ora, nella tua semplicità verginale, dimenticare la prudenza; ma in questa sola cosa, o Vergine prudente, non devi temere la presunzione. Perché, se nel silenzio è gradita la modestia, ora è piuttosto necessaria la pietà nella parola. Apri, Vergine beata, il cuore alla fede, le labbra all'assenso, il grembo al Creatore. Ecco che colui al quale è volto il desiderio di tutte le genti batte fuori alla porta. Non sia, che mentre tu sei titubante, egli passi oltre e tu debba, dolente, ricominciare a cercare colui che ami. Levati su, corri, apri! Levati con la fede, corri con la devozione, apri con il tuo assenso". |
SAN GIOVANNI DELLA CROCE
Se è vero che noi siamo figli di un Dio poeta, è anche vero che le corde di un cuore umano toccate dalla Mano di Dio sanno intonare canti di alta poesia. Così fu per San Giovanni della Croce, Dottore della Chiesa, frate carmelitano spagnolo, teologo e mistico del XVI secolo, artefice della riforma carmelitana insieme a Santa Teresa D'Avila.
Osteggiato dai carmelitani, detti mitigati, che definivano Santa Teresa d'Avila “donna inquieta e vagabonda” e lui “religioso disobbediente, ribelle e contumace”, fu incarcerato. Nel tempo buio e difficile della prigione maturò la sua personalità spirituale mistica e altamente poetica.
Attraverso la “notte oscura” dello spirito, fatta di spaventose aridità spirituali, egli giunse ad un altissimo grado di unione con Dio in cui la sua anima percepiva intimamente la bellezza del tutto.
Così egli si esprimeva:
Per arrivare a gustare tutto
non vogliate prender gusto di nulla.
Per arrivare a possedere tutto
non vogliate possedere nessuna cosa.
Per arrivare a essere tutto
non vogliate essere nessuna cosa.
Per arrivare a sapere tutto
non vogliate sapere nulla di nulla.
Questa la dottrina del “nada”: il nulla totale di sé per raggiungere il Tutto che è Dio.
La sua memoria ricorre il 14 dicembre.
Sue opere:
Salita del monte Carmelo
Notte oscura
Cantico spirituale |
SANTA TERESA D’AVILA
Vissuta nel XVI secolo, Teresa d’Avila entrò giovanissima nel Carmelo. Ma fu toccata e “incendiata” dal fuoco divino all’età di quarant’anni. Intraprese grandi cose, attuando la riforma del Carmelo e fondando l’ordine dei Carmelitani Scalzi. Aprì diversi Conventi, maschili e femminili, dove veniva praticato un ascetismo profondo e vivo.
Disinvolta, dinamica, coraggiosa e ardente nella sua fede, sopportò fatiche e disagi nonostante le sue precarie condizioni di salute.
Guidata da Dio per mezzo di visioni e intimi colloqui, fu maestra di mistici e direttrice di coscienze.
La sua forte intima unione con Dio le infondeva una grande energia insieme alle capacità necessarie e possibilità di amministrare le sue Fondazioni. Di sé diceva: “Teresa senza la grazia di Dio è una povera donna; con la grazia di Dio una forza; con la grazia di Dio e molti denari una potenza.”
Fu definita l’”onore della Spagna” e proclamata “Dottore della Chiesa”.
I suoi insegnamenti e il suo esempio di sposalizio spirituale con Cristo ci introducono nelle meraviglie della vita rigogliosa di un’anima che si affida a Dio con cuore sincero e coraggiosamente risponde al suo amore.
La sua festa ricorre il 15 ottobre.
Letture proposte:
LIBRO DELLA MIA VITA (autobiografia in cui viene narrata a tinte colorite la sua avventura spirituale)
CATELLO INTERIORE
CAMMINO DI PERFEZIONE
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SANTA MARGHERITA MARIA ALACOQUE
La figura di Margherita Maria Alacoque è legata alla devozione al Sacro Cuore di Gesù. Tale devozione aveva già avuto nella Francia di Luigi XIV un fervente propagatore in Giovanni Eudes. Questo santo aveva il cuore carico di vera pietà religiosa. Afflitto nel vedere da una parte una società mondana impoverita spiritualmente per il lassismo del clero e dall'altra il diffondersi del rigorismo dei giansenisti, fondò la Congregazione di Gesù e Maria con lo scopo di diffondere il culto dei Sacri Cuori.
Contrastando una devozione tiepida come anche una fede rigida che pone pesi sui più deboli, invece di accompagnarli con la speranza cristiana, San Giovanni Eudes indica in Gesù un Fratello con il Cuore pieno di carità e in Maria una Madre amorevole sulla cui intercessione poter contare. Spiega quindi che la devozione ai Sacri Cuori consiste non nell'esercizio di pie pratiche ma nella conoscenza del grande amore di Dio per noi e nel corrispondervi adeguatamente.
Con Margherita Maria Alacoque questa devozione viene arricchita dalla conoscenza della grandezza dei doni d'amore che Gesù vuole elargire ai devoti del suo divin Cuore. Nata in Francia nel 1647 Margherita entra a 24 anni nell'ordine della Visitazione fondato da san Francesco di Sales e santa Giovanna di Chantal. Vivrà nel monastero di Paray-le Monial per 19 anni, fino alla morte, offrendo tutta se stessa a Gesù da cui riceve grazie straordinarie e a cui offre penitenze e mortificazioni. Le consorelle, i superiori e perfino il direttore spirituale diffidano di lei giudicandola una visionaria. "Ha bisogno di minestra" è la loro conclusione. Suor Margherita Maria sopporta silenziosamente in umiltà e obbedienza imitando il divin Maestro e tenendo racchiuso nel suo cuore il dispiacere di non poter trasmettere quanto Gesù le comunicava nei mistici colloqui.
Il suo cuore di innamorata discepola figlia del divino amore trova finalmente consolazione quando avrà nel gesuita padre Claudio La Colombiere il direttore spirituale che Gesù le aveva promesso.
Padre Claudio comprende, crede e le ordina di scrivere in una autobiografia le sue esperienze mistiche. In tal modo le rivelazioni da lei ricevute diventano pubbliche. Gesù mostra a Margherita Maria Alacoque il suo Cuore "su un trono di fiamme, raggiante come sole, con la piaga adorabile, circondato di spine e sormontato da una croce" mentre le dice accoratamente: “Ecco quel cuore che ha tanto amato gli uomini e che nulla ha risparmiato fino ad esaurirsi e a consumarsi per testimoniare loro il suo Amore, e che in cambio riceve dalla maggior parte degli uomini solo ingratitudini, irriverenze e sacrilegi, insieme alla freddezza e al disprezzo". È il pianto di Gesù che non può lasciarci indifferenti.
Su tanto dolore Dio riversa la sua infinita misericordia dicendo ancora: "i preziosi tesori che a te discopro, contengono le grazie santificanti per trarre gli uomini dall'abisso di perdizione".
Poi la grande promessa: «Io ti prometto nell'eccessiva misericordia del mio Cuore che il mio amore onnipotente accorderà a tutti coloro che si comunicheranno per nove primi venerdì del mese consecutivi la Grazia della penitenza finale, non morranno nella mia disgrazia né senza ricevere i sacramenti... ».
Risuonano nell'anima nostra le parole che Gesù più tardi dirà a suor Faustina Kowalska. «Le fiamme della Misericordia mi divorano; voglio riversarle sulle anime degli uomini. Desidero che i sacerdoti annuncino la mia grande Misericordia per le anime dei peccatori. Il peccatore non deve aver paura di avvicinarsi a Me».
A Margherita Maria Alacoque Gesù chiede che il primo venerdì dopo l'ottava del santo Sacramento sia dedicato a una festa particolare per onorare il suo Cuore.
Il culto al Sacro Cuore di Gesù rappresenta una devozione riparatrice che invita ogni cristiano alla riparazione. Se santità è unione a Dio, Gesù ci chiama ad unirci a Lui intimamente e profondamente compiacendolo in ogni cosa. Diventare il compiacimento di Dio è la nostra gioia. Contrastando le intemperanze della nostra natura impariamo a gustare la libertà da tutti gli attaccamenti schiavizzanti del nostro io e della nostra concupiscenza e cresciamo sempre di più in amicizia con Dio. E, quando noi ci impegniamo in vari modi a compiacere Dio, nell'atto di applicarci in questa santa occupazione il nostro cuore è raggiunto mirabilmente dalle divine grazie perché mai Dio si fa a vincere in generosità.
Quali amanti dell'Amore non amato non possiamo inoltre non farci carico del debito d'amore comune a tutta l'umanità. Nessun uomo può considerarsi disgiunto da tutti gli altri componenti della famiglia umana. In una famiglia chi più può dare supplisce per gli altri. Così è nella famiglia dei figli di Dio. Chi si lascia penetrare nell'intimo dalla profondità dell'amore di Dio ha un debito verso Dio stesso che è quello di supplire in amore all'amore mancato da parte di altri fratelli.
Il culto al Sacro Cuore di Gesù è tutto questo.
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SANT'ALFONSO MARIA DE' LIGUORI
Se davvero vogliamo accostarci alla grande verità che Dio è la nostra felicità dobbiamo pensare che sia proprio vero quello che affermava Alfonso Maria de' Liguori e cioè che "Il paradiso di Dio è il cuore dell'uomo". Con quanta gioiosa premura allora faremo bello il paradiso dentro di noi per accogliere nel miglior modo Dio nostra felicità. Attorno a questo argomento ruota buona parte dell'impegno di Alfonso Maria de' Liguori predicatore, scrittore e grande apostolo dell'amore di Dio.
Sant'Alfonso Maria de' Liguori, dottore della Chiesa, patrono dei confessori e dei moralisti, illustre teologo, vescovo, musicista, compositore di celebri canti fra cui il noto "Tu scendi dalle stelle", nasce il 27 settembre 1696 da una delle più antiche e nobili famiglie napoletane. E il primo di otto figli. Giovanissimo eccelle in tutte le discipline, dalle lingue alle scienze, dalla poesia alla musica.
Eredita dalla madre un profondo sentimento di pietà religiosa e una sentita devozione alla Madonna. Lo dimostra un episodio che si racconta di lui relativo alla sua fanciullezza. Uscito con i compagni per una passeggiata al bosco, viene convinto dagli stessi a giocare a bocce con le arance. Pur non sapendo giocare, vince 30 partite di seguito e anche i soldi scommessi. Uno degli avversari si adira, lo insulta e bestemmia. Lui, dispiaciuto ancor più per l'offesa fatta Dio, restituisce i soldi e si ritira. Giunta l'ora del ritorno i compagni lo cercano e lo trovano raccolto in preghiera davanti a un'immagine della Madonna. Il ragazzo che lo aveva offeso piange e addolorato esclama "Ho offeso un santo!"
A soli 16 anni Alfonso Maria si laurea in diritto civile e si afferma subito come brillante avvocato per la sua dottrina e straordinaria eloquenza. Un clamoroso insospettato insuccesso però lo fa riflettere. Accade, che a motivo di un documento a lui non noto, perde una causa da lui perorata in buona fede, con la sua celebre oratoria e incontestabile perizia. Si chiede allora se davvero sia il caso di continuare a difendere la giustizia umana e non invece quella divina sicura, inequivocabile, garante del futuro dell'uomo. Abbandona la toga per seguire Cristo, superando le resistenze del padre dispiaciuto e deluso. La riconciliazione interiore col figlio il capitano don Giuseppe de Liguori l'avrà quando, entrando qualche tempo dopo nella chiesa dello Spirito Santo, dove predicava Alfonso Maria già ordinato prete, vede la gente che affolla la chiesa commossa e pervasa nell'intimo dalle parole del figlio. Egli stesso ne è toccato profondamente, tanto che rientrato a casa lo abbraccia e lo benedice. Alfonso Maria è molto colpito dallo stato di abbandono in cui vive la gente nei sobborghi cittadini e nelle campagne. Decide di avvicinare e coltivare i lazzaroni della Napoli settecentesca, gli operai, i contadini, gli artigiani, i cafoni delle zone montuose e di quelle rurali. Insomma inaugura un apostolato di strada.
Reagendo al rigorismo dei giansenisti Alfonso Maria de' Liguori presenta un Dio compassionevole e misericordioso.
Geniale e creativo com'è, idea le cappelle serotine, luoghi di ritrovo in cui al suono serale dell'angelus la popolazione del posto può radunarsi e partecipare alle preghiere, parlare dei propri problemi ed essere avvicinata a Dio. L'eccezionale capacità oratoria di Alfonso Maria de' Liguori trascina le folle, il suo linguaggio è comprensibile a tutti affinché tutti possano capire e ricevere la carezza di Dio. Ognuno deve sapere che Dio è tutto per lui e che è essenzialmente amore a cui affidarsi. "Date spazio alla voce interiore" soleva ripetere invitando a coltivare ciò che di eterno vive. Della morte poi non bisogna avere paura ma pensarla per vivere bene il proprio tempo. Al riguardo è significativa la sua affermazione secondo cui "la morte fa bene alla vita".
Prevenendo di molto i tempi, si circonda di laici, formandoli ad essere bravi predicatori, catechisti e responsabili delle comunità che si vanno formando. Per l'educazione religiosa dei ceti più abbandonati della società prepara missionari dediti alla redenzione di tante anime. Con loro organizza missioni popolari e fonda la Congregazione del SS. Redentore, detta anche dei Redentoristi, che oggi conta più di 700 Case in 80 Paesi del mondo.
A sessantasei anni accetta l'incarico di Vescovo di Sant'Agata dei Goti vicino Napoli. Governa la sua diocesi con totale dedizione e generosità verso i più poveri. Riprendendo il clero esigente e rigoroso, esorta ad un’evangelizzazione che attiri le anime a Dio con la comprensione che non è permissivismo né condiscendenza ma esperienza concreta dell'amore che salva e converte i cuori al bene.
Ammalato di artropatia deformante, sordo e quasi cieco, dopo dodici anni di direzione diocesana, Alfonso Maria de' Liguori si dimette ritirandosi nella casa dei confratelli a Nocera de’ Pagani, in provincia di Salerno, dedicandosi alla preghiera e alla scrittura. Là morirà il 1° agosto 1787.
Brillante autore di pregiate opere di ascetica, dommatica e teologia morale, nonché di celebri melodie, ha lasciato alla Chiesa un grande patrimonio di cultura religiosa. Le sue opere hanno superato le ventimila edizioni e sono state tradotte in settanta lingue. Fra le più note ricordiamo: "Massime eterne", "Theologia moralis", "Le glorie di Maria", "Pratica di amare Gesù", "Apparecchio alla morte", "Visite al Santissimo Sacramento", "Verità della fede", "Del gran mezzo della preghiera". Eccezionale cantore dell'amore di Dio ancora oggi ci conduce alla passione della vita vissuta a gloria di Dio, ci educa ad amare e venerare Cristo Crocifisso e Cristo eucaristico. Al mistero dell'Incarnazione ha dedicato le più belle canzoni popolari cantate in tutto il mondo e in tutte le lingue, a Maria le strofe più tenere e innamorate di figlio devoto come l'orecchiabile canto a tutti noto "O bella mia speranza, dolce amor mio Maria, tu sei la vita mia, la pace mia sei tu".
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SAN FRANCESCO DI SALES
Se si pensa alla figura di un direttore spirituale viene spontaneo pensare a Francesco di Sales.
Se poi volessimo immaginare le virtù dell'affabilità, della discrezione e della delicatezza unite alle capacità espressive e persuasive, le troviamo tutte in Francesco di Sales.
Impareggiabile maestro di spiritualità ed eccellente predicatore, ebbe un’abilità convincente tale da far fronte mirabilmente al rigore dei calvinisti che allora era imperante a Ginevra e si era esteso anche ai territori del ducato di Savoia.
Nato nel 1567 in una nobile famiglia savoiarda nel castello di Sales, Francesco studiò all'Università di Parigi e successivamente a quella di Padova, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Fu presto nominato avvocato del senato di Chambéry, ma la sua vocazione era quella ecclesiastica.
Dio gli aveva, come si suol dire, rapito il cuore e lui agiva sospinto dalla passione di un Dio follemente innamorato delle sue creature.
Divenuto prete e successivamente Vescovo di Ginevra, si dedicò subito con la predicazione e gli scritti a recuperare al cattolicesimo quanti se ne erano allontanati seguendo la riforma protestante calvinista.
Per divulgare più ampliamente i messaggi del suo apostolato cattolico ricorse alla pubblicazione di manifesti, che faceva stampare in grande quantità, affiggere sui muri e diffondere fra la popolazione. Una innovazione comunicativa che gli è valsa il titolo di patrono dei giornalisti.
Grazie alle sue doti di scrittore e alla sua abilità di persuasione, riuscì a fare rientrare nel cattolicesimo migliaia di calvinisti.
Il centro della sua predicazione era l'amore di Dio che spiegava mirabilmente rendendone accessibile la comprensione a tutte le classi sociali, ai preti come ai laici.
Accompagnava i fedeli nel cammino di fede sottolineando la necessità di avere il cuore abitato da Dio, affinché Dio potesse manifestarsi nelle nostre azioni. E spiegava come tale abitazione non fosse difficile da raggiungersi e da mantenersi, ma fosse assai amabile. Per questo può considerarsi verosimile l'episodio che narra di lui come un giorno, essendosi spuntata la sua penna, se la portasse al cuore e la penna ricominciasse a scrivere.
"Nulla per forza, tutto per amore" è il motto più sintetico che ci ha lasciato questo grande cantore dell'amore divino di cui ognuno di noi è singolare scintilla. Egli sosteneva che la santità non è affatto privilegio di pochi ma vocazione di tutti, essendo incentrata nell'amore ed essendo noi figli di Dio che è Amore. Spiegava che tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove ci si trova. Sì, l'amore di Dio e per Dio è il perno attorno a cui ruota la spiritualità salesiana.
Nelle lettere indirizzate alla baronessa Giovanna de Chantal, di cui fu direttore spirituale e con cui fondò l'Ordine della Visitazione, traspare come il suo cuore fosse totalmente preso dall'amore di Dio e ardesse dallo zelo di corrisponderlo. Vi leggiamo: "Amo questo amore. Esso è forte, ampio, senza misura né riserva, ma dolce, forte, purissimo e tranquillissimo; in una parola è un amore che vive solo in Dio." E ancora: "Tutto quello che si fa per amore è amore. Il lavoro e perfino la morte non sono che amore quando è per amore che noi li accogliamo". Di questo amore egli si nutriva, questo amore respirava e trasmetteva con la dolcezza dei suoi tratti e delle sue parole.
Prediligeva la povertà e la mortificazione e vi aderiva con molta semplicità, allenandosi a vincere i combattimenti con la propria natura con il cuore carico di amore per Dio a cui portava le anime educandole ad adattarsi in ogni momento alla volontà divina con ferma determinazione e cuore ilare. "Bisogna discernere ciò che Dio vuole e, dopo averlo riconosciuto, bisogna cercare di farlo con gioia o almeno con coraggio".
Prima di tutto quindi bisogna cercare di piacere a Dio e la via più semplice per farlo è quella di lasciarsi attrarre dall'amore più che sentirsi costretti dal timore, tutelando "lo spirito di libertà che esclude la costrizione, lo scrupolo e l’agitazione". Liberi infatti Dio ci ha voluti, affinché potessimo scegliere liberamente ciò che fosse corretto fare secondo l'intelletto e l'impronta del bene che il suo dito creatore ha impresso nel nostro spirito.
Rispecchiando meravigliosamente le caratteristiche della perfezione dell'amore divino, Francesco di Sales tracciava la via di una diligenza che estromette ogni ansia, una diligenza che guarda all’oggi di Dio senza affannarsi sul domani. "Quando arriverà il giorno di domani, si chiamerà anch’esso oggi, e allora ci penseremo” affermava, accompagnando in tal modo le anime ad approdare nella pace della fiducia in Dio che sapientemente ci porta. E a questo abbandono fiducioso in Dio che sa come condurci si riferisce l'altro suo famoso motto: "Nulla chiedere, nulla rifiutare".
Una guida semplice e d'effetto per progredire spiritualmente mettendo a profitto tutte le occasioni, sopportando con dolcezza disagi, impedimenti, ingiustizie, incomprensioni al fine di guadagnarsi il cuore di Dio.
Quanto poi alle nostre miserie e ricadute non è il caso di meravigliarsi o impressionarsi. "Non c’è nulla che sia già tutto fatto - ci incoraggia Francesco di Sales - bisogna ricominciare e ricominciare di buon cuore usando pazienza soprattutto con sé stessi".
Insomma, se Dio è amore, e lo è, la nostra adesione a Lui quali figli , compresa la correzione di noi stessi e degli altri, non può che essere amore.
L'amore è musica celeste soprannaturale da cui dobbiamo lasciarci avvolgere.
L'insegnamento di Francesco di Sales, intriso di amore di Dio e di carità verso tutti è racchiuso, oltre che nelle sue numerosissime lettere, nelle sue principali opere: “Il Trattato dell'amore di Dio” e “L'Introduzione alla vita devota”, testi fondamentali della letteratura religiosa.
A pieno titolo è stato proclamato dottore della Chiesa.
Giovanni Bosco, appassionato educatore della gioventù, per guidare i suoi giovani al porto sicuro dell'amore di Dio volle riferirsi a Francesco di Sales, al suo metodo, alla sua dolcezza, alla sua mansuetudine, alla sua estrema carità e, affidandosi alla sua protezione, decise di chiamare salesiana la Congregazione da lui fondata.
Francesco di Sales morì a Lione il 28 dicembre del 1622 e fu canonizzato nel 1665.
La sua predicazione e i suoi scritti hanno influenzato nella sua epoca e in quelle successive la formazione cristiana non solo di figure di rilievo ma di tanti che nell'amore di Dio hanno costruito la loro felice santità di vita . |
SANTA VERONICA GIULIANI
Nacque nel 1660 a Mercatello presso Urbino. Mostrò già da bambina una grandissima attrazione verso Cristo e la sua Passione.
Nel suo diario così scrive riguardo la sua prima comunione: “Nella prima comunione mi pare che il Signore mi facesse intendere che io dovevo essere sua sposa. Provai un non so che particolare; restai come fuor di me; ma io non compresi niente. Pensavo che nella Comunione fosse sempre così. Nel ricevere quella Santissima Ostia, parevami che entrasse nel mio cuore un fuoco. Mi sentivo bruciare, non trovavo luogo e, frattanto non volevo dare qualche segno esteriore”.
A diciassette anni lasciò la sua comoda casa, la vita libera, la condizione altolocata, ed entrò tra le Clarisse del Convento di Città di Castello, in Val Tiberina. Ma, pur nelle ben serrate mura del chiostro, la giovane marchigiana mostrò i segni di un'eccezionale predilezione da parte dello Sposo celeste.
Devota della Passione di Cristo, ne riviveva puntualmente e visibilmente le sofferenze. Ebbe la fronte piagata da una corona invisibile di spine; un venerdì santo fu trafitta dalle ferite delle stigmate.
Nel suo diario scrive: “Qui mi pare che di nuovo mi venisse un dolore grande delle mie colpe col lume particolare dell'amore infinito di Dio. Fra dolore ed amore stavo, e vedevo in tutta realtà, su per aria, Gesù crocifisso. Io non posso con la penna dire quasi niente di quello che in quel punto provai ed ebbi. Solo ricordo che vidi spiccare dalle piaghe di Gesù cinque raggi, come di fuoco. Vennero alla volta mia: uno si posò nel cuore, gli altri nelle mani e nei piedi. Sentii pena grande e parvemi che mi fosse passato il cuore con un'acuta lancia e le mani e i piedi con un grosso chiodo... Ritornai in me con ansia del patire, con la cognizione di me stessa e col desiderio della conversione dei peccatori. Nel ritornare che feci in me, mi ritrovai con le braccia aperte e nella cella vi era un gran lume. La ferita del cuore era aperta e faceva gran copia di sangue: vi avevo gran dolore. Non mi potevo muovere in modo alcuno, stante la pena e il dolore che avevo nelle mani e nei piedi. Nel mezzo, tanto sopra la mano come sotto, vi era una bolla grossa come un cece. Quando io vidi questi segni esteriori, di molto piansi e di cuore pregai il Signore che volesse nasconderli alla vista di tutte”.
Per comprensibile prudenza, i superiori tennero la suora in totale reclusione. Le proibirono qualsiasi contatto con l'esterno, e la invitarono a prendere ordini da una suora conversa.
Consapevole di quali sconvolgimenti mistici agitassero la sua penitente, il confessore impose a Veronica di tenere un diario spirituale. Giorno dopo giorno, per più di trent'anni, la clarissa narrò minuziosamente, su quel diario, le sue sofferenze e le sue gioie, le preghiere e gli abbattimenti. Da quei fogli scritti senza artificio, e che il confessore gli proibiva di rileggere, presero corpo bene quarantaquattro fitti volumi che qualcuno, cominciando a pubblicarli, definì poi “un tesoro nascosto”.
Anche oggi le pagine di Veronica Giuliani passano tra le più alte e più belle della letteratura mistica in Italia e altrettanto interessanti sono le testimonianza pervenuteci sul suo conto, sulla sua vita conventuale e sul suo atteggiamento verso le altre suore.
Veronica Giuliani morì a Città di Castello, nel 1727, un venerdì, dopo trentatré giorni di malattia. Morta, il suo corpo mostrava ancora i segni delle stimmate. All'autopsia, davanti ai medici e ai superiori, il cuore apparve trafitto da parte a parte.
La sua memoria ricorre il 9 luglio.
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SAN GIOVANNI MARIA VIANNEY
Giovanni Maria Vianney, noto come il Curato D’Ars, nacque da una famiglia contadina e crebbe sotto la rivoluzione francese. Suo desiderio era diventare prete e giunse ad esserlo a costo di lunghe fatiche e tante umiliazioni. A trentadue anni gli fu affidata la cura di Ars. Era il 1818.
In quella città il popolo era distratto dalle cure materiali e indifferente alla religione. Il Curato d’Ars non uscì nel sagrato per chiamare la gente, né corse lungo le strade per scuotere l’indifferenza dei parrocchiani. Non rimproverò nessuno. Rimase lungamente in preghiera inginocchiato davanti al tabernacolo. Fu così che la gente, incuriosita, si accostò alla chiesa. Vedendolo così a lungo intento in una preghiera che era colloquio dolcissimo con l’Autore della vita, prese a ritornarvi e a inginocchiarsi accanto a lui commuovendosi, a raccogliersi, ad avvicinarlo, fino ad aprirgli il proprio cuore.
In due anni Ars divenne il paese più devoto del Lionese e in dieci anni fu meta di pellegrinaggi da tutta la Francia.
Il curato d’Ars confessava dodici ore al giorno. Stremato fisicamente, morì a settantatré anni. I pellegrini non cessarono di accorrere ad Ars anche dopo la sua morte, attratti dalla sua intercessione di taumaturgo.
Proclamato patrono dei sacerdoti da Papa Pio X, rimane un modello esemplare di adorazione eucaristica e di guida delle anime.
Sue sono queste espressioni:
“Oh, come è bello fare tutto in compagnia di Dio!”
“La preghiera, ecco la felicità dell’uomo sulla terra.”
“C’è una specie di preghiera che possiamo fare di continuo, anche senza distoglierci dalle nostre occupazioni, ecco come si fa. Consiste, in tutto quello che facciamo, nel non fare altro che la volontà di Dio.”
“Quando si ama qualcuno non si ha bisogno di vederlo per pensare a Lui. Così, se noi amiamo Dio, la preghiera ci diventerà familiare come il respiro.”
Un giorno un sacerdote gli chiese: “Signor Curato, dove avete fatto il corso di teologia?” Il Curato Vianney gli additò il suo inginocchiatoio.
“L’occhio del mondo non vede più in là della vita, l’occhio del cristiano vede fino in fondo all’eternità.”
La sua memoria ricorre il 4 agosto.
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SAN CAMILLO DE LELLIS
San Camillo de Lellis, patrono dei malati, degli ospedali e degli operatori sanitari, è il modello del servizio agli infermi.
Nacque a Bucchianico, in Abruzzo, il 25 maggio del 1550. Il padre era un capitano di ventura e la madre aveva circa sessant'anni quando lo ebbe. Poco prima del parto un sogno la sconvolse. Vide un bambino che aveva sul petto una croce e precedeva una schiera di altri bambini, ciascuno dei quali portava sul petto lo stesso segno, una croce. La povera donna, spaventata, ripeteva sempre: "I malfattori vanno al patibolo con la croce al collo e dunque mio figlio farà questa fine insieme ad altri briganti". Nessuno riusciva a consolarla.
Camillo venne alla luce nella stalla della casa paterna e fu adagiato sulla mangiatoia, proprio come Gesù. La madre morì quando egli aveva solo tredici anni.
Da giovane Camillo avrebbe voluto intraprendere la carriera delle armi, seguendo le orme del padre. Dalla nativa Bucchianico, il giovane seguì il padre in viaggio verso Venezia per mettere la propria spada a servizio della Serenissima. Ma, giunto a Loreto, il capitano de Lellis morì e Camillo rimase solo con la spada ereditata dal padre.
Camillo era un soldato poco esemplare, attaccabrighe e sfaticato. Giocava a carte e a dadi e fu proprio nel gioco che perse tutto, perfino la spada e il cinturone.
Una piaga ad un piede lo costrinse al ricovero a Roma presso l'ospedale di San Giacomo degli incurabili, dove non essendo un malato grave fu occupato a fare l'infermiere per avere il diritto di curarsi. Ma fu un pessimo infermiere, distratto, svogliato e venale.
Successivamente, ridotto a chiedere l'elemosina, ricevette accoglienza presso il convento dei Cappuccini a Manfredonia, dove lavorò come manovale. Lavorava per forza e senza alcuna dedizione.
Un giorno, recatosi al convento di San Giovanni Rotondo per portare delle provviste ai frati, vi incontrò Padre Angelo, il padre guardiano, ed ebbe con lui un lungo colloquio in cui il padre gli spiegò come Dio fosse tutto e il resto non valesse nulla e che era necessario salvare l'anima che non muore. Durante il viaggio di ritorno al convento di Manfredonia, quelle parole gli risuonarono dentro al punto che dovette fermarsi e, buttatosi a terra con molte lacrime, chiese perdono a Dio, impegnandosi a fare penitenza per il resto della sua vita. Avrebbe voluto entrare nell'Ordine dei Cappuccini, ma per ben due volte, riaprendosi la piaga al piede, fu costretto a lasciare il convento e ricoverarsi presso l'Ospedale San Giacomo degli incurabili. “Poiché Dio non mi ha voluto Cappuccino, né in quello stato di penitenza dove desideravo tanto stare e morire, è segno che mi vuole qui al servizio di questi suoi poveri infermi” diceva. Si tuffò allora a vivere totalmente per gli altri.
Ora il soldato convertito vede in ogni malato l'immagine di Gesù sofferente. Più il malato è ripugnante, scontroso e ingrato, più Camillo è accanto a lui, paziente e obbediente. Così si rivolgeva ai malati: “Non chiedetemi, per favore, comandatemi, perché voi siete i miei padroni”.
L'assistenza negli ospedali, a quei tempi, era in mano ai mercenari. Alcuni erano delinquenti, costretti a quel lavoro per forza, altri vi si recavano per mancanza di altro guadagno. Camillo considerava “causa di morte” questi luoghi “sporchi, fetosi e fangosi”. Un cronista del '600 così scrive: “I poveri agonizzanti stavano anche tre giorni interi stentando e penando nelle loro penose agonie, senza che alcuno li avvicinasse. Quante volte restavano senza aiuto e cibo per giorni interi! Quanti poveri in stato grave, senza letti rifatti anche per settimane intere, si marcivano nei vermi e nelle bruttezze! Quanti fiacchi alzandosi dal letto per qualche bisogno, cascando per terra morivano o si ferivano gravemente! Quanti, spasimando dalla sete, non potevano avere un goccio d'acqua, onde molti come arrabbiati dal grande ardore sappiamo che si bevevano l'urina... Ma questa che dirò ora chi la crederebbe mai? Quanti poveri morenti, non ancora finiti di morire, erano da quei giovani mercenari poco accorti pigliati subito dai letti e portati così mezzi vivi tra i corpi morti per essere poi sepolti vivi!”
In questa disperata situazione, gli infermieri si approfittavano di Camillo e, quando si imbattevano in un malato nauseabondo dicevano fra loro: “Questo è un tordo per Camillo”. E Camillo, zoppicante e instancabile correva da una corsia all'altra. Tutti lo chiamavano, non solo i malati, ma anche i personaggi di Roma ai quali era giunta la fama di quel prodigioso infermiere, poiché avvenivano anche miracoli di guarigione.
Camillo, però, preferiva sempre i poveri ai ricchi, i malati ai sani. Così a chi lo cercava, anche se era un personaggio importante, faceva rispondere: “Ditegli che abbia pazienza. Sono occupato con nostro Signore Gesù Cristo”. Di fatto, nel malato più grave, nel delirante, nel moribondo lui vedeva Gesù Cristo.
Così fu che avvertì la volontà di Dio di istituire una Compagnia di uomini pii che, non per mercede ma volontariamente e per amor di Dio, servissero i malati con quella carità e quell'amorevolezza che hanno le madri verso i loro figli.
A Camillo si unirono i primi compagni che cominciarono con lui a pregare davanti a un crocifisso in un oratorio allestito nell'ospedale. Presto furono osteggiati e accusati di volersi impossessare del comando dell'ospedale e gli venne imposto di disfare il piccolo oratorio. Camillo, stanco e sfiduciato, stava per cedere ma il Crocifisso si animò, staccò le braccia e gli disse: “Di che ti affliggi o pusillanime? Continua, che io ti aiuterò, perché questa è opera mia e non tua!” Da quel momento Camillo ebbe una grande spinta ad andare avanti. Studiò e divenne sacerdote.
Dopo diverse vicende, si trasferì con i compagni nella chiesa di Santa Maria Maddalena, vicino al Pantheon, al centro di Roma. Chiese a Papa Sisto V che venisse concesso a lui e ai suoi religiosi il privilegio di portare una croce rossa sull'abito religioso. Ecco il sogno profetico della madre, che non era segno di disgrazia ma di grande grazia a gloria di Dio. Così nacque l'ordine da lui formato dei ministri degli infermi, che da oltre quattrocento anni assistono i malati in tutto il mondo.
La vita di Camillo De Lellis fu segnata da clamorosi miracoli, che mostrarono a tutti quanto è pronta la provvidenza di Dio verso chi a Lui totalmente si dona. Aborrì tanto il peccato che, quando fu sacerdote, fece appendere su una porta un cartello con questa scritta: “Fratello, se tu fai alcuna cosa brutta con diletto, il diletto passa e la bruttura resta; se tu fai alcuna cosa virtuosa con fatica, la fatica passa e la virtù rimane”.
Morì a Roma la sera del 14 luglio del 1614. Fu canonizzato nel 1746 da Benedetto XIV. Nel 1866 fu dichiarato da Leone XIII patrono di tutti gli ospedali e di tutti i malati del mondo. Nel 1930 Pio XI lo additava come modello a medici e infermieri. Paolo VI nel 1964 lo dichiarò patrono d'Abruzzo insieme a san Gabriele dell'Addolorata.
La sua memoria ricorre il 14 luglio. |
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SAN GIUSEPPE DA COPERTINO
Giuseppe da Copertino è un santo davvero singolare. È conosciuto come il Santo dei voli a motivo delle sue estasi che lo rapivano al punto da farlo rimanere sospeso in aria. È noto anche come protettore degli studenti. Infatti, nonostante non avesse l'attitudine allo studio, si ostinò a volere diventare sacerdote, e ci riuscì.
Nacque in una stalla, a Copertino nel 1603. La sua famiglia era molto povera ma lui ebbe un'ottima educazione religiosa da parte della mamma. A diciassette anni era deciso a diventare un religioso. I Frati Minori lo rifiutarono perché troppo ignorante. I Cappuccini lo accettarono come converso ma, trovandolo assai maldestro, lo allontanarono. Egli ne soffrì molto. Anche in famiglia non ebbe accoglienza, finché i Frati Minori del convento della Grottella lo accolsero per custodire una mula. Toccati dalla sua pietà e obbedienza, lo fecero converso e gli restituirono l'abito francescano. Frate Giuseppe voleva però diventare prete. Studiò per diversi anni ma di tutte le scritture riusciva a commentare soltanto una frase. All'esame di diacono il Vescovo, aperto il Vangelo, lesse proprio quella frase e Giuseppe fu promosso. Doveva però affrontare ancora un esame più impegnativo. Accadde che i compagni che sostennero tale esame prima di lui fossero così ben preparati che il Vescovo promosse, in massa, anche tutti gli altri. Fu così che Giuseppe da Copertino tornò al convento della Grottella questa volta sacerdote.
La sua semplicità non cambiò ma la sua santità fu sempre maggiore. Presto divenne protagonista di fatti eccezionali. Le sue estasi e i suoi voli divennero per tanti causa di attrazione, ma per lui motivo di grandi sofferenze. A trentacinque anni fu sottoposto a un processo ecclesiastico e nel 1638 Urbano VIII chiese di assistere alle sue estasi e ne restò profondamente toccato. I giudici, pur ammirandone la vita santa, per prudenza lo vollero isolare dalla gente. Giuseppe obbediva senza lamentarsi ma, dovunque veniva trasferito, la sua presenza a motivo dei fatti prodigiosi richiamava una straordinaria folla di popolo. Passò la vita trasferendosi da una città a un'altra: Roma, Assisi, Fossombrone, Pietrarubia, finché finalmente il Papa concesse ai Frati Minori conventuali di riaverlo con loro. Morì nel convento di Osimo, ultima tappa della sua vita a sessant'anni.
Il suo esempio ci mostra quanto attiri l'anima a Dio una vita virtuosa vissuta nell'umiltà e nell'obbedienza.
La sua memoria ricorre il 18 settembre.
CANTICO DEL BENE di San Giuseppe di Copertino
Chi fa ben sol per paura non fa niente e poco dura.
Chi fa ben sol per usanza se non perde poco avanza.
Chi fa ben come per forza lascia il frutto e tien la scorza.
Chi fa ben qual sciocco a caso va per l'acqua senza vaso.
Chi fa ben per parer buono non acquista altro che suono.
Chi fa ben per vana gloria non avrà giammai vittoria.
Chi fa ben per avarizia cresce sempre più in malizia.
Chi fa ben con negligenza perde il frutto e la semenza.
Chi fa ben all'indiscreta senza frutto mai s'acquieta.
Chi fa ben solo per gusto mai sarà santo né giusto.
Chi fa ben sol per salvarsi troppo s'ama e non sa amarsi.
Chi fa ben per puro amore dona a Dio l'anima e il core
e qual figlio e servitore sarà unito al suo Signore.
Gesù dolce Salvatore sia lodato a tutte l'ore,
il supremo e gran motore d'ogni grazia donatore.
Amen |
SANTA RITA DA CASCIA
Rita, la santa dell'impossibile invocata in tutto il mondo, è modello di donna, di sposa e di madre ma soprattutto è un grande modello di credente.
Fanciulla di Roccaporena, nonostante sentisse fortemente la propria vocazione religiosa, sposò Paolo Di Ferdinando per obbedienza agli anziani genitori. Siamo nel periodo dello Scisma d’Occidente (1378-1417), che vide a Cascia fronteggiarsi Guelfi e Ghibellini per il controllo della città. Ferdinando era un uomo d’armi, inquieto o collerico. Rita con molta fatica e preghiere ottenne la sua conversione. Ma intorno a lui continuavano le antiche inimicizie e fu così che Paolo, considerato un traditore, una sera fu trovato ucciso sul margine di una strada.
I due giovani figli, fomentati dai familiari del padre, meditarono la vendetta. Rita tentò invano di dissuaderli. Accortasi di non riuscire a fermarli, chiese al Signore di prenderli, purché non si macchiassero di una colpa così grave. Fu accontentata. Persi i figli, Rita cadde in un profondo sconforto e offrì le sue sofferenze per la salvezza eterna dei suoi cari.
Dopo tanti rifiuti, venne accettata dalla suore Agostiniane del Monastero di Cascia, essendo stata introdotta dentro le porte ben serrate del Monastero miracolosamente dal Battista, da Sant'Agostino e da Nicola da Tolentino. In quel Monastero fu la suora del dolore, la mistica innamorata del Crocifisso. Un giorno, mentre pregava più intensamente, in uno slancio di unione alle sofferenze di Cristo, sentì penetrare con dolore nella fronte una spina dalla corona del Salvatore. Tale spina aprì una piaga penosa che la segnò per quattordici anni, fino alla morte che avvenne nel 1457.
Attorno a santa Rita da Cascia sono fioriti numerosi miracoli, sia prima che dopo la morte, rendendola un riferimento, una protezione sicura per tutti quelli che nella sofferenza l'invocano con fiducia.
La sua memoria ricorre il 22 maggio. |
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SANTA MARIA GORETTI
L'esempio di Maria Goretti pone l'accento sulla purezza, qualità essenziale e liberante in qualsiasi condizione di vita. La purezza, oggi fraintesa al punto da essere irrisa e considerata superata, è l'aspetto della nostra umanità che difende la dignità dell'uomo e rende nobili le relazioni umane. Sempre un rapporto d'amore mantiene intatte le qualità della purezza quando è vissuto nella fedeltà, nella sincerità e nella totale gratuità della donazione reciproca. Per castità, infatti, si intende la purezza dei sentimenti, dei pensieri e delle intenzioni. Tale condizione, peraltro, è al centro di una vita sana ed equilibrata e soddisfa le esigenze più profonde di ogni uomo e donna di ogni tempo.
Marietta, la maggiore dei cinque figli della famiglia di Luigi Goretti, viveva a Ferriere di Conca, zona paludosa lungo il litorale tirreno. Rimasta a dieci anni orfana di padre, nel 1900, dovette assumersi la cura dei fratellini perché la mamma doveva lavorare nei campi.
Marietta curava anche i figli della famiglia Serenelli che vivevano nella stessa cascina. Impegnata nella gestione della casa, non potette andare a scuola. Riuscì però a fare la prima comunione che le riempì il cuore di fervore verso Dio, a cui promise di non peccare e che di fronte a tale rischio avrebbe preferito la morte. La purezza dei sentimenti di Marietta, insieme alla gioia della preghiera, fu la sua forza.
A dodici anni Marietta era una ragazzina precocemente sviluppata, che il diciottenne Alessandro Serenelli, della famiglia accanto, guardava con desiderio cupo. Di fronte alle proposte del ragazzo, Marietta era sempre irremovibile e, quando Alessandro le si presentò con un coltello in mano minacciandola, lei resistette mentre il giovane la colpiva procurandole sul giovane corpo ben quattordici ferite. Morì il giorno dopo all'ospedale di Nettuno perdonando il suo uccisore, di cui ebbe a dire prima di morire: “Voglio che venga con me in Paradiso”.
Alessandro Serenelli subito dopo il delitto fu arrestato e condotto in carcere, dove maturò una clamorosa conversione. Uscito dal carcere dopo ventisette anni, per buona condotta, entrò in Convento presso i padri Cappuccini. Morì all'età di novant'anni, invocando Maria Goretti come la sua salvatrice.
Nel 1950 Maria Goretti è proclamata santa. La sua memoria ricorre il 6 luglio.
Testamento spirituale di Alessandro Serenelli
«Sono vecchio di quasi 80 anni, prossimo a chiudere la mia giornata. Dando uno sguardo al passato, riconosco che nella mia prima giovinezza infilai una strada falsa: la via del male, che mi condusse alla rovina. Vedevo, attraverso la stampa, gli spettacoli e i cattivi esempi che la maggior parte dei giovani segue senza darsi pensiero: io pure non mi preoccupai. Persone credenti e praticanti le avevo vicino a me, ma non ci badavo, accecato da una forza bruta che mi sospingeva per una strada cattiva. Consumai a vent’anni un delitto passionale del quale oggi inorridisco al solo ricordo. Maria Goretti, ora santa, fu l’angelo buono che la provvidenza aveva messo avanti ai miei passi per salvarmi. Ho impresse ancora nel cuore le sue parole di rimprovero e di perdono. Pregò per me, intercedette per il suo uccisore. Seguirono trent’anni di prigione. Se non fossi stato minorenne, sarei stato condannato a vita. Accettai la sentenza meritata, rassegnato: capii la mia colpa. La piccola Maria fu veramente la mia luce, la mia protettrice; col suo aiuto mi comportai bene nei ventisette anni di carcere e cercai di vivere onestamente quando la società mi riaccettò fra i suoi membri. I figli di S. Francesco, i Minori Cappuccini delle Marche, con carità serafica mi hanno accolto fra loro non come servo, ma come fratello. Con loro vivo da 24 anni. Ed ora aspetto sereno il momento di essere ammesso alla visione di Dio, di riabbracciare i miei cari, di essere vicino al mio angelo protettore ed alla sua cara mamma, Assunta. Coloro che leggeranno questa mia lettera vogliono trarre il felice insegnamento di fuggire il male e di seguire il bene sempre, fin da fanciulli. Pensino che la religione con i suoi precetti non è una cosa di cui si può fare a meno, ma è il vero conforto, l’unica via sicura in tutte le circostanze, anche quelle più dolorose della vita. Pace e bene». |
SANTA BERNADETTE SOUBIROUS
Tutti conoscono Santa Bernadette Soubirous perché tutti conoscono Lourdes, luogo di continui pellegrinaggi, miracolose guarigioni e clamorose conversioni.
Si chiamava Maria Bernarda ed era nata nel 1844 a Lourdes nella Francia meridionale. Era figlia di un mugnaio che presto dovette abbandonare il proprio mulino e vivere di stenti. Nella fredda mattina dell'11 febbraio del 1858 in casa Soubirous non c'era più legna da ardere. Bernadette con la sorella Antonietta e una compagna furono mandate a cercare rami secchi nei dintorni del paese. Le tre fanciulle giunsero vicino alla rupe di Massabielle, che formava dalla parte del fiume una piccola grotta. Bisognava attraversare un canale d'acqua che veniva da un mulino e si gettava nel fiume. Mentre le compagne a piedi nudi l'attraversarono celermente, Bernadette, che soffrendo d'asma portava calze spesse, si attardò. Fu così che si volse verso la grotta, attratta da una folata di vento. La vide illuminarsi e apparirvi una splendida Signora che lei chiamerà “la bella signora” e che descriverà “vestita di bianco, un nastro celeste annodato alla vita, le cui estremità erano lunghe fin quasi ai piedi”. Ben diciotto volte la Madonna è apparsa a Bernadette nella grotta di Massabielle. Recitavano insieme il rosario. Bernadette racconta: “Quando io recitavo la corona la Bianca Signora faceva scorrere i grani fra le Sue dita. Al Gloria Patri univa la sua voce alla mia”. Alla nona apparizione, quella del 25 febbraio del 1858, la Madonna indica a Bernadette il luogo della sorgente di quell'acqua che si rivelerà miracolosa. Alla sedicesima apparizione, quella del 25 marzo del 1858, data in cui la Chiesa ricorda l'annunciazione della Beata Vergine Maria, la “bella Signora” rivelerà il suo nome: “Io sono l'Immacolata Concezione”. Quattro anni prima Papa Pio IX aveva dichiarato il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, ma Bernadette non poteva saperlo. Il 16 luglio del 1858, festa della Madonna del Carmelo, Bernadette vedrà la Madonna in questa terra per l'ultima volta e dirà: “Non l'ho mai vista così bella!”
I miracoli alla grotta si moltiplicano. Bernadette, prima inquisita e minacciata insieme alla sua famiglia, ora è divorata dalle attenzioni e dalla curiosità della gente. Dopo sei anni trascorsi all'ospizio delle suore di Nevers, Bernadette matura la sua vocazione religiosa.
Si ritirerà definitivamente nel Convento delle Suore della Carità di Nevers dove, stremata di forze per l'asma, la tubercolosi e il tumore osseo al ginocchio, morirà il 16 aprile del 1879.
Il suo corpo, riesumato dopo trent'anni, non mostrò alcun segno di decomposizione. Era intatto, mentre il rosario era arrugginito e le vesti umide. Le suore lavarono il corpo di Bernadette e lo collocarono in una nuova bara. Nella seconda ricognizione del 3 aprile del 1919 e nella terza del 18 aprile del 1925 il corpo di Bernadette manifestò ancora lo stesso incredibile stato di conservazione. In particolare in quest'ultima occasione si procedette all'analisi chimica di alcune particelle del fegato e dei muscoli, le quali non manifestarono alcun processo di putrefazione, risultando ottimamente conservati.
Il 3 agosto del 1925 l'urna contenente il corpo intatto di Bernadette è stata esposta nella cappella di Nevers alla venerazione dei fedeli.
La sua memoria ricorre il 16 aprile.
Per tratteggiare brevemente i lineamenti dell'anima di Bernadette Soubirous, riportiamo alcune espressioni tratte dai suoi scritti. A proposito della comunione eucaristica scrive: “La croce diventava più leggera e le sofferenze dolci, quando pensavo che avrei avuto la visita di Gesù e l'insigne favore di possederlo nel mio cuore, Lui che viene a soffrire con quelli che soffrono, a piangere con quelli che piangono. Dove trovare un amico che sappia compatire e nello stesso tempo addolcire i nostri dolori quanto Gesù? È prerogativa di Gesù e di Gesù solo. Amiamolo e attacchiamoci a Lui con tutto il nostro cuore” (Dalla lettera alla sorella Maria del 28 aprile del 1873).
Fra le sue preghiere: “L'amore di Nostro Signore sarà il coltello per tagliare e far scomparire l'albero dell'orgoglio e le sue cattive radici. Più io mi abbasserò, più crescerò nel Cuore di Gesù”. “Gesù mio, nascondetemi nel vostro Sacro Cuore. Qui, nel Cuore di Gesù, io voglio imparare a soffrire ed amare. Nel Cuore di Gesù io troverò la dolcezza e la pazienza nella desolazione, nel Cuore di Gesù troverò la vera consolazione”. “Oh Divin Gesù, imprimi nel mio cuore quel sentimento di uno degli innamorati della tua croce che aveva l'abitudine di dire che, se dopo averti servito per cent'anni tu gli facessi la grazia di soffrire solamente un'ora per amor tuo, riterrebbe che tutti i suoi servizi sarebbero fin troppo ben ricompensati”.
Dalle note intime: “Non passerò un istante senza amare. Colui che ama fa tutto senza fatica, oppure ama la sua fatica”. |
SANTA MARIA FAUSTINA KOWALSKA
Nessun santo ha avuto vita facile, ma il contatto con Dio è valso a rendere soave ogni pena. Lo stesso può dirsi per Faustina Kowalska, scelta da Dio per la propagazione del culto alla divina Misericordia.
Nata nel 1905 in Polonia in una famiglia di poveri contadini, terza di dieci figli e battezzata con il nome di Elena, Faustina crebbe in un clima di profonda religiosità, tanto da maturare all'età di soli sette anni la vocazione religiosa. Ciò nonostante, i genitori alla sua richiesta di entrare in convento, espressa per la prima volta a quindici anni e rinnovata accoratamente all'età di diciotto anni, si opposero portando come motivazione la mancanza di denaro per procurarle una dote.
Ma Gesù la voleva per Sé e un giorno mentre si trovava ad una festa da ballo, dove era andata con la sorella, le si mostrò martoriato tutto coperto di ferite e le impresse nel cuore il dispiacere per averlo ingannato.
Successivamente, mentre era raccolta in preghiera in cattedrale, la esortò a recarsi a Varsavia per entrare in convento. Giunta a Varsavia, in chiesa, durante la celebrazione della Messa, udì di nuovo la voce di Gesù che le indicava il celebrante come colui a cui rivolgersi. Il prete, titubante, ritenne di inviarla intanto a servizio da una pia signora che avrebbe potuto aiutarla prima di entrare in convento. Ma la signora, alquanto scettica, non la incoraggiò affatto per cui la giovane Elena cominciò a girare di convento in convento ricevendo diversi rifiuti, fino a quando fu accolta nella Congregazione di Nostra Signora della Misericordia a Varsavia dove, dopo il noviziato, vestì l'abito di suora e prese il nome di suor Maria Faustina.
Le furono assegnati i lavori più umili e pesanti e venne trasferita in diverse case della Congregazione.
Era la sera del 22 febbraio 1931 quando, mentre era raccolta in preghiera nella sua cella presso il Convento di Plock, vide Gesù, raffigurato come lo veneriamo noi ora nell'immagine della divina Misericordia, che la esortava a fare dipingere un quadro secondo quella visione con sotto la scritta "Gesù confido in te".
Le espresse anche il desiderio che quella immagine venisse venerata prima nella cappella del convento e poi nel mondo intero, promettendo salvezza all'anima che gli avrebbe offerto culto e già qui, soprattutto nell'ora della morte, la vittoria sui nemici.
Suor Faustina non trovò davvero via facile a quanto il Signore le chiedeva. Il confessore la invitava a venerare quella immagine nel suo cuore ma Gesù si faceva ancora sentire in lei con insistenza esprimendo anche il desiderio che fosse istituita la festa della Divina Misericordia la prima domenica dopo Pasqua e che quella immagine venisse ovunque venerata.
La Superiora generale della Congregazione, a cui suor Faustina era andata a confidarsi, si impegnò a fornirle una tela con dei colori e dei pennelli affinché lei stessa potesse dipingere l'immagine. Suor Faustina non ne era capace e si trovò a vivere angoscia e incertezza nel suo cuore.
Trasferita a Vilnius, conobbe finalmente don Sopocko che sarebbe divenuto il suo direttore spirituale. Don Sopocko la invitò a tenere un diario e l'autorizzò a far dipingere finalmente da un pittore l'immagine che Gesù le aveva mostrato.
Dovevano ancora seguire dure prove per suor Faustina. Intanto Gesù il giovedì santo del 1934 le chiese di fare l'offerta di se stessa per i peccatori e in particolare per quelle anime che non avevano più speranza nella misericordia di Dio.
Suor Faustina attraversò un periodo di inquietudini, tentazioni, aridità, contribuendo in tal modo con tutta se stessa ai sacrifici che richiedeva l'opera che Dio le aveva affidato. Tuttavia, la vicinanza di Gesù e l'esperienza del soprannaturale portavano la sua anima a godere intimamente le beatitudini celesti. Questo la sollevava nelle fatiche, nello sconforto e nella stretta di solitudine in cui sentiva serrato il suo cuore.
I suoi incontri intimi con Gesù, raccontati nel suo diario, toccano profondamente l'anima del lettore imprimendogli la soavità dei tratti divini. Vi troviamo tutto l'amore misericordioso di Dio più volte espresso nella Scrittura.
Così si volge Gesù alla sua fedele suor Faustina in cui ha trovato il suo compiacimento: "Segretaria del Mio mistero più profondo, sappi che sei in confidenza esclusiva con Me. Il tuo compito è quello di scrivere tutto ciò che ti faccio conoscere sulla Mia Misericordia, per il bene delle anime che leggendo questi scritti proveranno un conforto interiore e saranno incoraggiate ad avvicinarsi a Me" (Diario 1693).
Gesù stesso aveva spiegato a suor Faustina il significato dei raggi che uscivano dalla ferita del suo Cuore: "Questi raggi significano l'acqua e il sangue. L'acqua che giustifica le anime, il sangue che è vita dell'anima. Sgorgano dal mio cuore aperto sulla croce. Questi raggi proteggono l'anima dalla collera del Padre mio. Felice chi vive alla loro ombra, la giustizia non lo raggiungerà".
In un'altra visione così Gesù confiderà a suor Faustina: "Il Mio Cuore è stracolmo di tanta Misericordia per le anime (...) Oh! se riuscissero a capire che Io sono per loro il migliore dei Padri; che per loro è scaturito dal Mio Cuore Sangue ed Acqua, come da una sorgente straripante di Misericordia; che per loro dimoro nel tabernacolo e come Re di Misericordia desidero colmare le anime di grazie..." (Diario 367).
Gesù spiega a suor Faustina che “La vera grandezza di un’anima sta nell’amare Dio e nell’umiltà” (Diario, 427). “...Quando l’anima si sprofonda nell’abisso della sua miseria, Dio fa uso della Sua onnipotenza per innalzarla. Se c’è sulla terra un’anima veramente felice, questa è soltanto un’anima veramente umile. All’inizio l’amor proprio soffre molto per questo motivo, ma Iddio, dopo che l’anima ha affrontato valorosamente ripetuti combattimenti, le elargisce molta luce, con la quale essa viene a conoscere quanto tutto sia misero e pieno di illusioni” (Diario, 593). “Sopra un’anima umile sono aperte le cateratte del cielo e scende su di lei un mare di grazie (...) Ad una tale anima Iddio non rifiuta nulla" (Diario 1306).
E suor Faustina così si confida con il suo Gesù e Maestro divino: "O mio Gesù, tu sai quanta fatica occorre per trattare sinceramente e con semplicità con coloro dai quali la nostra natura rifugge, oppure con coloro che consapevolmente od anche inconsapevolmente ci hanno fatto soffrire. Umanamente la cosa è impossibile. In quei momenti più che in altre circostanze, cerco di scoprire Gesù in quelle date persone e per amore di Gesù faccio tutto per quelle persone. In queste azioni l’amore è puro; questo esercitarsi nella carità tempra l’anima e la rafforza. Non m’aspetto nulla dalle creature. Per questo non provo alcuna delusione...” (Diario, 766).
E ancora scrive sul suo diario: “O Gesù, mio modello perfettissimo, andrò attraverso la vita con lo sguardo rivolto a Te, seguendo le Tue orme, adattando la natura alla grazia, secondo la Tua santissima volontà e la luce che illumina la mia anima, confidando pienamente nel Tuo aiuto” (Diario, 1351).
La sua intima e profonda unione a Gesù, crocifisso per amore, rende suor Faustina mirabilmente duttile alle operazioni divine al punto che né le turbolenze dell'umana natura né gli insidiosi attacchi del maligno possono distoglierla dall'abbandono fiducioso nelle mani del suo Creatore e Divin Padre. Ed è questo il vero grande miracolo da ammirare: la creatura figlia che tutta si modella sulla volontà del Padre: è la santità.
Ed è proprio la santità di vita che apre alla creatura lo scrigno delle verità eterne.
Per esporre l'immagine della divina misericordia mostrata da Gesù stesso a suor Faustina ci voleva l'autorizzazione dell'arcivescovo che però si mostrò ancora incerto. Don Sopocko allora collocò l'immagine in un corridoio del Convento delle suore bernardine. Si dovette attendere la settimana santa del 1935 per esporre l'immagine alla venerazione pubblica. Avvenne a Vilnius al Santuario mariano della Beata Vergine della Porta dell'Aurora, Madre di Misericordia, in occasione del triduo solenne a chiusura del Giubileo della Redenzione del Mondo, per il 19° centenario della Passione del Salvatore. L'ultimo giorno della solennità coincideva proprio con la prima domenica dopo Pasqua.
Suor Faustina vide finalmente esaudita la volontà del Signore. Nel suo diario scrisse "Ora vedo che l’opera della Redenzione è collegata con l’opera della Misericordia richiesta dal Signore” (Diario, 89).
Trasferita a Cracovia nel 1936, suor Faustina, ammalatasi di tubercolosi, vi morì, crocifissa da sofferenze fisiche e morali, il 17 settembre del 1938. Aveva 33 anni. La stessa età in cui Gesù moriva sulla Croce per la nostra redenzione.
Fedele alla Chiesa, unita fortemente a Gesù si era offerta in sacrificio per la salvezza delle anime. Nel Cuore di Cristo trovava riposo, nelle sue estasi la delizia dell'amore che salva, nell'obbedienza la pace, fino all'incontro con Dio Padre misericordioso che concluse felicemente la sua vita terrena.
Beatificata da papa Giovanni Paolo II il 18 aprile del 1993, è stata proclamata santa dallo stesso Pontefice il 30 aprile dell’anno 2000 . |
SANTA GEMMA GALGANI
Se qualcuno ha ancora qualche dubbio sulla presenza dell'Angelo custode accanto a sé, la vita di Gemma Galgani lo farà convinto. La singolare attività del suo angelo custode ha segnato infatti in modo particolarissimo la vita di questa giovane santa.
Nata il 12 marzo del 1878 a Borgonuovo di Camigliano in provincia di Lucca, Gemma è figlia del dottor Galgani, farmacista del paese. Perde la mamma in tenera età e presto anche un fratello seminarista. Più tardi le verrà a mancare anche il papà e sarà ospitata da una zia. A sedici anni ha le prime visioni di Gesù e del suo angelo custode. Il suo cuore inizia ad ardere di desiderio di aiutare Gesù crocifisso. Soffre molto nel corpo a causa di una osteite delle vertebre lombari che la porterà alla paralisi delle gambe, da cui guarirà miracolosamente per intercessione di santa Margherita Maria Alacoque.
Durante la malattia la lettura della biografia di San Gabriele dell'Addolorata (allora venerabile) la colpisce profondamente. Gabriele le appare e la conforta. Diventerà suo amico, dolce consigliere e protettore. E Gemma si legherà all'ordine dei passionisti, con il desiderio e con il cuore seguendone la spiritualità. Segnata fortemente dal soprannaturale, Gemma patisce anche incomprensioni e diffidenze da parte dei familiari, della gente e perfino del clero. Grande è il suo dolore ma supera tutto con la semplicità e la purezza della sua anima fanciulla.
Giovane mistica e contemplativa si intrattiene in dolci colloqui con il suo Gesù. Vuole appartenergli totalmente poiché in Lui ha trovato la massima felicità. E Gesù non si fa attendere.
Nell'autobiografia che il suo direttore spirituale, il passionista Padre Germano di San Stanislao, le aveva ordinato di scrivere, la santa racconta che il giorno 8 giugno del 1899, vigilia della festa del Sacro Cuore di Gesù, dopo la comunione Gesù le annuncia che quella sera le avrebbe fatto una grande grazia. Giunta la sera Gemma prova un grande dolore per i propri peccati. Scrive: "l'intelletto non conosceva che i miei peccati e l'offesa di Dio; la memoria tutti me li ricordava, e mi faceva vedere tutti i tormenti che Gesù aveva patito per salvarmi; la volontà me li faceva tutti detestare e promettere di voler tutto soffrire per espiarli. Un mucchio di pensieri si volsero tutti alla mente: erano pensieri di dolore, di amore, di timore, di speranza e di conforto". Subito dopo Gemma vede il suo Angelo custode e la Madonna che la ricopre con il suo manto, poi Gesù con le ferite aperte da cui escono fiamme di fuoco che la raggiungono alle mani, ai piedi e al cuore. "Mi sentii morire - scrive Gemma- sarei caduta in terra; ma la Mamma mi sorresse, ricoperta sempre col suo manto. Per parecchie ore mi convenne rimanere in quella posizione. Dopo la Mamma mia mi baciò nella fronte e tutto disparve e mi ritrovai in ginocchio a terra... Aiutata dall'angelo mio potei montare sul letto. Quei dolori, quelle pene, anziché affliggermi, mi recavano una pace perfetta." Piena d’amore, assetata di dolore da vivere e da donare a Gesù per la salvezza delle anime, Gesù la stringe a Sé amorevolmente nel donarle i segni della sua passione.
L'esile corpo sofferente di Gemma vede aprirsi le stigmate dolorose e sanguinanti ogni settimana dal giovedì fino alle tre del venerdì pomeriggio. Il dolore è acuto, il sangue vivo abbonda soprattutto dal costato, la gioia di compartecipazione ai dolori di Gesù che ne consegue è indescrivibile.
Dopo l'estasi del venerdì le ferite piano piano si rimarginano fino a non lasciare alcun segno. Così tutte le settimane.
Appariranno anche le piaghe della flagellazione.
Alla sua partecipazione alla passione di Cristo si aggiunge il coraggioso combattimento contro la propria natura. "Tu vuoi, Gesù, che rinunci agli umani ragionamenti? Giacché lo vuoi, Gesù, io ti sacrifico fin da questo momento tutto quello che la natura mi vorrebbe rapire" afferma nell'estasi del 18 dicembre del 1901.
Nello slancio di volergli donare tutto si accorge tuttavia della propria povertà e incapacità. Sa che ogni cosa le viene da Dio: " Tu mi chiedi amore, ed io non posso dartelo se tu non me lo dai" dirà a Gesù nell' estasi del 12 gennaio 1903.
A motivo della gratitudine immensa che prova nel suo cuore e dell'ardore di portare anime alla salvezza, il suo forte desiderio di immedesimazione in Gesù non si ferma soltanto a volergli donare tutta se stessa. Non le basta. Ecco che nell'estasi del 17gennaio del 1902 torna incalzante la richiesta di ardere dello stesso ardore che infuoca il cuore divino. "Eh, Gesù, perché amarti solo per i tuoi doni, e non amarti per quella croce?... O croce, fammi un po' di posto anche a me accanto a Gesù! ...Ma che singolarità di amore hai scelto per me!... Lesto, Gesù, bruciami, ma dello stesso fuoco che ha bruciato te!"
La passione del nostro Redentore, mistero dell'infinito amore divino, avvolge interamente lo spirito di Gemma che vi trova inimmaginabili ricchezze mentre comprende che l'amore vero e ardente ha nel dolore la sua massima espressione. Gemma trascorre gli ultimi tre anni della sua vita in casa di Cecilia Giannini, madre di 11 figli e donna molto pia che soleva ospitare i Padri Passionisti di passaggio a Lucca.
La signora Cecilia, non solo accoglie Gemma in casa sua, ma la fa dormire in un letto allestito nella sua camera. Diventa così testimone del rapporto singolarissimo fra Gemma e il suo angelo custode la cui presenza diffonde nella stanza un dolcissimo profumo. Gemma si lascia guidare in tutto dal suo angelo e gli affida anche l'incarico di recapitare la corrispondenza col suo direttore spirituale.
Gemma muore a soli 25 anni l'11 aprile del 1903. È sabato santo e Gesù la vuole con sé nella Pasqua eterna.
È Beatificata il 14 maggio 1933 da Pio XI e canonizzata il 2 maggio 1940 da Pio XII.
I mistici colloqui delle sue numerosissime estasi mostrano tutta la sua arrendevolezza a Dio e spiegano come la caducità umana totalmente affidata alla grazia permette il miracolo delle divine operazioni. |
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